Unico
ornamento di quel periodo è stato il braccialetto di identificazione azzurro
che associava infallibilmente me a mio figlio. Penso di averlo tenuto al polso
per circa due mesi, suscitando la curiosità preoccupata di parenti, amici e
conoscenti. L’ho tolto quando ho iniziato a superare il trauma del parto.
Successivamente, un
giorno qualunque del primo anno di vita di Matteo, ho sentito la voglia di
rindossare una collanina. Ne ho molte, e ho molti ciondoli, fatti per lo più di
pietre dure dalle forme anticheggianti. Quel giorno scelsi un ciondolo con una
pietra color viola scuro e una collanina in oro bianco. L’ho messa e non l’ho
più tolta, salvo quando me lo ha chiesto Matteo.
Adornarsi
è un’attività specifica dell’essere umano, anche tra le popolazioni meno
evolute tecnologicamente, dunque è chiaro che i bambini, nella misura in cui
crescendo ripercorrono l’evoluzione filogenetica dell’uomo, esprimano questo
bisogno. Eppure quando Matteo mi chiede “mamma mi dai la tua collana?” non ha
semplicemente voglia di essere più bello né sta solamente esprimendo il suo
gusto estetico; piuttosto questa domanda fa il paio con “mamma adesso ti regalo
questa così fa le ninne con te” frase che mi dice alla sera, nel lettone,
porgendomi una delle sue macchinine mentre nelle sue manine ne stringe altre
due.
Così,
ogni tanto e solo dietro sua richiesta, io tolgo la mia collanina e gliela
metto al collo e lui è felice e soddisfatto. Poi aspetto, per lo più qualche
ora, il momento in cui ad essere felice e soddisfatta sono io perché lui mi
guarda e mi dice “adesso mamma toglimela”. Felicità un po’ amara di ogni mamma
che vede il suo bimbo crescere.
Non
mi importa se la gente ci guarda incuriositi, non mi interessa cosa possano
aver pensato le maestre o i suoi compagni d’asilo perché ogni volta che Matteo
chiede la mia collana io penso che lo faccia perché ha bisogno di sentirmi
vicina.
Mi
tornano in mente le parole della nostra pediatra: “ai bambini bisogna saper
dire anche di si, non solo di no” e bisogna anche sforzarsi di capire il senso
delle loro richieste, aggiungo io.
Così
la mia collanina addosso a lui sta a significare la sua capacità di esprimere
il bisogno della mia vicinanza e la mia sensibilità a cogliere tale bisogno.
Ebbene, tutto questo significato ogni tanto si scontra con la superficialità di chi sta
accanto alla coppia madre-figlio: l’altra mattina Matteo ha chiesto la
collanina, io gliel’ho messa al collo e dopo averlo lasciato dalla nonna, l’ho
rivisto solo alla sera. Allora, dopo esserci salutati, dopo aver giocato un po’, mi si
avvicina e mi chiede di togliergli la collana, io lo faccio, lui scappa dentro
casa. Appena lo vedono, sento la nonna esclamare: “finalmente hai tolto quella
collana da femminuccia” e poi la zia “devi dire a mamma di comprartene una da
maschietto”.
E’
chiaro che nulla di irrispettoso nei miei confronti può essere ravvisato nella
parole di nonna e zia eppure all’ascoltarle ho sentito, in sottofondo, il
fragore prodotto dai movimenti di un elefante in una vetreria di Murano. “Crac,
crac, crac”: oggetti di indicibile finezza e delicatezza travolti da zampe
talmente tozze e dure da non essere neppure ferite dai cocci.
Ferita
però mi sono sentita io, al pensiero che Matteo potesse trovarsi d’accordo con
un ragionamento che, oggettivamente e logicamente, non fa una piega e che pure,
se lui ne fosse rimasto colpito, potrebbe porre fine a questo nostro gioco.
E la magia a poco a poco se ne va.
Ma non è detto...