domenica 17 giugno 2012

Come un elefante in una vetreria


 Il giorno in cui ho partorito portavo al collo una collanina sottile con un ciondolo a forma di cuore. La mia vicina di stanza mi ha suggerito di toglierla, ché mi avrebbe dato fastidio durante il travaglio, un po’ impaurita l’ho tolta e l’ho messa dentro il portafoglio. E’ rimasta lì per qualche mese, prima che mi decidessi a riporla per bene.
Unico ornamento di quel periodo è stato il braccialetto di identificazione azzurro che associava infallibilmente me a mio figlio. Penso di averlo tenuto al polso per circa due mesi, suscitando la curiosità preoccupata di parenti, amici e conoscenti. L’ho tolto quando ho iniziato a superare il trauma del parto.
Successivamente, un giorno qualunque del primo anno di vita di Matteo, ho  sentito la voglia di rindossare una collanina. Ne ho molte, e ho molti ciondoli, fatti per lo più di pietre dure dalle forme anticheggianti. Quel giorno scelsi un ciondolo con una pietra color viola scuro e una collanina in oro bianco. L’ho messa e non l’ho più tolta, salvo quando me lo ha chiesto Matteo.
Adornarsi è un’attività specifica dell’essere umano, anche tra le popolazioni meno evolute tecnologicamente, dunque è chiaro che i bambini, nella misura in cui crescendo ripercorrono l’evoluzione filogenetica dell’uomo, esprimano questo bisogno. Eppure quando Matteo mi chiede “mamma mi dai la tua collana?” non ha semplicemente voglia di essere più bello né sta solamente esprimendo il suo gusto estetico; piuttosto questa domanda fa il paio con “mamma adesso ti regalo questa così fa le ninne con te” frase che mi dice alla sera, nel lettone, porgendomi una delle sue macchinine mentre nelle sue manine ne stringe altre due.
Così, ogni tanto e solo dietro sua richiesta, io tolgo la mia collanina e gliela metto al collo e lui è felice e soddisfatto. Poi aspetto, per lo più qualche ora, il momento in cui ad essere felice e soddisfatta sono io perché lui mi guarda e mi dice “adesso mamma toglimela”. Felicità un po’ amara di ogni mamma che vede il suo bimbo crescere.
Non mi importa se la gente ci guarda incuriositi, non mi interessa cosa possano aver pensato le maestre o i suoi compagni d’asilo perché ogni volta che Matteo chiede la mia collana io penso che lo faccia perché ha bisogno di sentirmi vicina.
Mi tornano in mente le parole della nostra pediatra: “ai bambini bisogna saper dire anche di si, non solo di no” e bisogna anche sforzarsi di capire il senso delle loro richieste, aggiungo io.
Così la mia collanina addosso a lui sta a significare la sua capacità di esprimere il bisogno della mia vicinanza e la mia sensibilità a cogliere tale bisogno.
Ebbene, tutto questo significato ogni tanto si scontra con la superficialità di chi sta accanto alla coppia madre-figlio: l’altra mattina Matteo ha chiesto la collanina, io gliel’ho messa al collo e dopo averlo lasciato dalla nonna, l’ho rivisto solo alla sera. Allora, dopo esserci salutati, dopo aver giocato un po’, mi si avvicina e mi chiede di togliergli la collana, io lo faccio, lui scappa dentro casa. Appena lo vedono, sento la nonna esclamare: “finalmente hai tolto quella collana da femminuccia” e poi la zia “devi dire a mamma di comprartene una da maschietto”.
E’ chiaro che nulla di irrispettoso nei miei confronti può essere ravvisato nella parole di nonna e zia eppure all’ascoltarle ho sentito, in sottofondo, il fragore prodotto dai movimenti di un elefante in una vetreria di Murano. “Crac, crac, crac”: oggetti di indicibile finezza e delicatezza travolti da zampe talmente tozze e dure da non essere neppure ferite dai cocci.
Ferita però mi sono sentita io, al pensiero che Matteo potesse trovarsi d’accordo con un ragionamento che, oggettivamente e logicamente, non fa una piega e che pure, se lui ne fosse rimasto colpito, potrebbe porre fine a questo nostro gioco.
E la magia a poco a poco se ne va.
Ma non è detto...



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