giovedì 10 maggio 2012

Degustazioni letterarie: "La mossa del cavallo" Andrea Camilleri

"Patre Artemio Carnazza era un omo che stava a mezzo tra la quarantina e la cinquantina, rosciano, stacciùto, amava mangiari e bìviri. Con animo cristiano era sempre pronto a prestare dinaro ai bisognevoli e doppo, con animo pagano, si faceva tornare narrè il doppio e macari il triplo di quello che aveva sborsato. Soprattutto, patre Carnazza amava la natura. Non quella degli acidruzzi, delle picorelle, degli àrboli, delle arbe e dei tramonti, anzi di quel tipo di natura egli altissimamente se ne stracatafotteva. Quella che a lui lo faceva nèsciri pazzo era la natura della fìmmina che, nella sua infinita varietà, stava a cantare le lodi alla fantasia del Criatore: ora nìvura come l' inca, ora rossa come il foco, ora bionda come la spica del frumento, ma sempre con sfumature di colore diverse, con l'erbuzza una volta alta che sontuosamente oscillava al soffio del suo fiato, un'altra volta corta corta come appena falciata, un'altra volta ancora fitta e intrecciata come un cespuglio spinoso e sarvaggio. Sempre si meravigliava quanno che ne vedeva una nova, perché nova novissima era veramente con tutto il suo particulare da scoprire, da percorrere centilimetro appresso centilimetro fino alla grotticella càvuda e ùmita dintra alla quale trasìre a lento a lento, adascio, che doppo era la grotticella istessa ad afferrarti stretto, a inserrarti le sue pareti intorno, a portarti fino al fondo più fondo in dove che stimpagna l'acqua di vita." 

Sicilia, 1877: sull'isola sbarca Giovanni Bovara da Genova, funzionario statale del neonato (ma già fiscalmente organizzato) Regno d'Italia col compito di vigilare sulla riscossione della tassa sul macinato. Siciliano d'origine, ma trasferitosi a Genova all'età di tre mesi, con stupore e indignazione tipicamente genovesi, il Bovara scopre e solertemente denuncia una sistematica truffa ai danni dell'erario. Da quel momento si innescherà un carosello di eventi che lo porteranno ad essere accusato dell'ultimo omicidio verificatosi in paese. Il povero Bovara non c'entra nulla , ma quale occasione migliore per toglierselo di torno? Ogni tentativo di autodifesa sembra peggiorare la sua situazione finché il giovane non capisce che l'unica sua possibilità di salvezza consiste nel recupero del dialetto siciliano. Per farsi capire? No, piuttosto per pensare come i suoi accusatori e dunque, come in una partita a scacchi, prevederne le mosse.
Nel passaggio da "Voi mi state facendo impazzire coi vostri cavilli" del primo interrogatorio a "lu sapi com'è ca succedi, signor giudice? Ca unu parla e riparla sempri di l'istissa cosa e cchiù ne parla e cchiù la cosa si acclarisce dintra di lui. A mia sta capitando accussì" l'intendente comunica di aver compreso le regole e di essere capace di giocare. Infatti si salverà benché tutto, alla sua dipartita, continuerà come prima.
Ve ne sarete accorti: questo libro è scritto quasi tutto in dialetto siciliano e, dove non c'è il siciliano, c'è il genovese. Ma tranquilli perché il siciliano è patrimonio linguistico di qualsiasi italiano, lo si capisce, per lo più e lo si può contestualizzare. Stessa cosa non si può dire del genovese, davvero ostico. E come mai l'editore non ha preteso note a margine con traduzione? Tanto più che l'unico  ad usarlo è il protagonista del romanzo? Forse perché l'intento dello scrittore era quello di far emergere un modalità emotiva di comprensione del linguaggio. Difatti, per chi non conosca questo dialetto, l'unica cosa sensata è quella di affidarsi al ritmo, alla musicalità correlandoli al senso delle poche parole che si conoscono e immaginando tutto il resto. 
E infatti in questo romanzo Camilleri dimostra una padronanza assoluta del linguaggio: Il "Faldone A" e il "Faldone B", che contengono la parte documentale (perché scritta) della vicenda, sono un caleidoscopio linguistico: dalle lettere dell'intendente Bovara ai superiori a quelle dei deputati ai ministri, dai rapporti dei Carabinieri ai richiami alla "christiana charitas" del Vescovo, passando per gli articoli dei giornali collusi e le richieste di trasferimento di procuratori scomodi. A ciascuno il suo linguaggio con i suoi registri, toni, formule, ammiccamenti. Il tutto al comando del mago Camilleri.

Se un giorno finalmente la smetteremo, noi italiani, di essere bacchettoni come siamo, se un giorno i programmi di studio diventassero un po’ più interessanti (non sarà mai troppo presto), allora quel giorno si potrà confrontare la figura di Don Abbondio con quella di Padre Carnazza, traendo le consone (all’evoluzione culturale e civile del momento) conclusioni sulle “invarianti dell’italianità", le costanti caratteriali (forse geneticamente determinate?) per cui i secoli passano ma i difetti restano.
Fortuna che resta pure il genio letterario, allora quello di Manzoni, adesso quello di Camilleri.

2 commenti:

  1. mi piaciono un sacco i tuoi post letterari. Da ex librodipendente attualmente costretta ad un uso moderato e consapevole trovo che sia meraviglioso mantenere salda la passione per le parole scritte e per tutte le belle storie che le parole sanno raccontare, al di là di ciò che ci insegnano a scuola....

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  2. Grazie ifruttirossi: "il mio cuore vola alto come un falco" mi viene da dire. La letteratura è una passione, chi ce l'ha ne capisce la potenza ed è felice di trovare altri con cui condividerla. Mi raccomando se ti capita di leggere qualcosa di bello dillo anche tu. A presto

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