mercoledì 20 febbraio 2013

Assaggi di saggi: "Dialoghi sull'economia" - Fabrizio Galimberti

"Ma qui ci si vorrebbe soffermare su un punto cruciale che sta a monte di queste analisi. Cioè a dire, qual'è il punto di partenza? La spesa pubblica in Italia è eccessiva e quindi sarà facile da tagliare? O è già sottopeso e quindi i tagli saranno molto difficili? O addirittura dovrebbe essere invece aumentata? Perché, malgrado da decenni tutti invochino a parole i tagli di spesa (solo per le spese improduttive, naturalmente), la spesa ha continuato a salire? E' solo per l'insipienza dei governanti (di destra o di sinistra)? O vi sono altre ragioni? [...] 
Una prima interpretazione riposa su un confronto internazionale. Per avere un'idea del'anomalia o meno della nostra quota di spesa possiamo confrontarci con i Paesi vicini. Il grafico mostra le quote di spesa nei Paesi dell'euro e nei principali paesi non euro dell'Unione europea. E mostra come la quota di spesa in Italia sia la più bassa di tutti.
Come si concilia questo fatto con la realtà di un peso della spesa che, come detto, supera la metà del Pil? Si spiega perché la spesa sulla quale si sono fatti i confronti riguarda la parte di spesa sulla quale si può intervenire per tagliare gli sprechi e in altri modi contenere. Si è cioè esclusa quella parte di spesa che "viene dal passato" e sulla quale non si può operare. Sono due i grandi comparti intoccabili: la spesa per interessi, che dipende dal debito accumulato nel passato; e la spesa per le pensioni, che dipende dalla passata generosità del sistema pensionistico. Su quest'ultima si può operare "al margine", contenendo gli esborsi futuri per i pensionandi e/o alzando l'età pensionabile, ma in ogni caso i risparmi sono lenti a manifestarsi, dato che il monte pensioni in essere è pesante e non può essere modificato.
Ecco quindi una prima risposta alla difficoltà di ridurre la spesa. Le risorse destinate ai servizi pubblici sono già basse, e gli anticorpi presenti nella società resistono a ulteriori tagli come a un virus che minaccia la salute dell'organismo economico. Altri dati confortano questa tesi: il numero di dipendenti pubblici in Italia è più basso, in rapporto alla popolazione (i clienti dei servizi) rispetto a quel "tempio del capitalismo selvaggio" che sono gli Stati Uniti.
Ma allora gli sprechi? Ci sono o non ci sono? Certamente ci sono, e sarebbe strano se nelle pieghe delle centinaia di miliardi di euro che compongono la spesa non vi siano disfunzioni (sulle quali il rapporto Giarda richiama l'attenzione con efficacia). Allora è legittimo aspettarsi una sana potatura dei rami secchi della spesa che liberi risorse per la riforma fiscale e/o per la riduzione del deficit?
La risposta è positiva se lo scopo dell'operazione è quello di mantenere la rotta verso il risanamento dei conti pubblici. Sempre, naturalmente, che questo governo abbia il vigore e la compattezza necessari  per mettere a frutto le analisi del Gruppo di lavoro. La risposta è invece negativa se lo scopo dell'operazione è anche quello di restituire all'economia italiana la capacità e la voglia di crescere. E' utile a questo proposito sottolineare che la spesa pubblica si divide, come la Gallia di Giulio Cesare, in tre parti:
1) Quella che c'è ed è bene che ci sia (la spesa che funziona).
2) Quella che c'è ed è bene che non ci sia (gli sprechi).
3) Quella che non c'è e ci dovrebbe essere (i bisogni pubblici non adeguatamente soddisfatti).
Il problema della bassa crescita italiana, così come del malessere della società, sta essenzialmente nel cattivo funzionamento della pubblica amministrazione e in un mancato raccordo fra la domanda di servizi pubblici e l'offerta degli stessi. Dalle misure passive di protezione del lavoro (sussidi di disoccupazione) a quelle attive (formazione e così via), dalle misure in favore delle famiglie (natalità...) a quelle in favore dell'occupazione femminile (asili nido...), dalla protezione dell'ambiente e del patrimonio artistico alla lotta alla criminalità organizzata, c'è tanta "spesa pubblica che non c'è" - e che ci dovrebbe essere.
Tutto questo per dire che se si riduce la spesa che c'è e non si aumenta quella che non c'è (e ci dovrebbe essere) è solo una mezza vittoria. La lotta agli sprechi dovrebbe servire a migliorare la qualità della spesa, non necessariamente la quantità. Ma, se si rinuncia a portare i tagli di spesa direttamente a riduzione del deficit, questo non vuol dire che il deficit non possa essere ridotto per vie indirette, attraverso la  maggior crescita del Pil che sarebbe promossa da un miglioramento del tono e della composizione della spesa pubblica."


"L'abito non fa il monaco" e l'edizione non fa il libro è il caso di dire per questa raccolta di articoli apparsi sul "Sole 24 Ore" tra l'aprile 2011 e il giugno 2012 a firma Fabrizio Galimberti e venduta in allegato al giornale il 24/08/2012. Questo libretto dall'aspetto modesto (per cui mi è capitato di perderlo più e più volte durante le svariate riletture) e dall'apparenza inconsistente è in realtà un concentrato di riflessioni illuminanti e spregiudicate (senza pregiudizi) sulla situazione politico economica del nostro paese in uno degli anni peggiori della nostra storia recente.
Di economia mi interesso da poco eppure vi posso assicurare che non era facile, nel periodo in cui scriveva Galimberti, trovare riflessioni come quella che ho scelto di citare in questo post. Sapere che ci sono componenti della spesa pubblica che sono intoccabili, avere la conferma che in Italia si spede poco in servizi ai cittadini e scoprire che quella che ci viene descritta come la causa primaria dei nostri problemi, potrebbe invece diventare uno stimolo alla ripresa è una grande opportunità per provare a guardare le cose in maniera diversa. E' come per "il problema dei nove punti": non si arriva alla soluzione finché non si abbandonano i vincoli percettivi che, pur non essendo "dati" del problema, condizionano i nostri tentativi di problem solving. 
Di riflessioni di questo tipo Galimberti ne fa tante come quando afferma che: "Quando l'economia va male si creano deficit "ad alto potenziale", finanziati stampando moneta. Quando l'economia va bene si creano surplus e la moneta che affluisce nelle casse dello Stato viene distrutta. In questo modus operandi delle politiche economiche il debito pubblico diventa irrilevante." 
Voi mi direte: "ma che dice Galimberti?! Non sa forse che siamo in Europa e che non possiamo fare come ci pare?" Qui viene il bello perché Galimberti sa bene che L'Europa c'è e le sue politiche economiche e fiscali ci vincolano in modo pesante ma questa consapevolezza non gli impedisce di analizzare i fatti in maniera critica: in un immaginario dialogo tra Goethe e la Merkel, all'indomani di un altrettanto immaginario (ma non per questo improbabile) crollo dell'euro e dell'Unione monetaria, il Goethe galimbertiano così rimprovera la Merkel: "Se avete una moneta unica dovete avere anche un sistema finanziario unico, un regolatore delle banche unico e un'unica gestione del debito [...] Avete trascinato il mondo e voi stessi in un'altra recessione e spento le speranze dell'Europa verso un cammino di pace e di integrazione. Avete diviso invece di unire.
Ricordo stimati economisti parlare di "incalcolabilità" del danno che sarebbe potuto venire da un'uscita della Grecia dall'euro, di un effetto domino che avrebbe travolto tutti gli altri paesi dell'eurozona, Italia in primis. Senza pregiudizi scientifici né morali Galimberti si affaccia su un simile scenario e nell'articolo "euro al bivio tra crollo e rilancio" delinea uno quadro che, per quanto grave, non ha nulla di apocalittico registrando anzi una ripresa dell'economia greca insieme, però, ad un inevitabile ridimensionamento dell'Unione e rimarcando ancora una volta tutte le attuali lacune di questo ambizioso progetto. Tuttavia c'è anche spazio per lo scenario opposto che, in ossequio alla convinzione che l'Unione europea possa progredire proprio sotto lo stimolo delle crisi che saprà affrontare, giunge ad un suo rafforzamento dove c'è ancora posto anche per la Grecia.
Il tutto tenendo sempre ben presenti le potenzialità e i pesanti limiti del tessuto sociale, economico e politico italiano: la crescita che non c'è, il "pregiudizio anti-industriale", l'organizzazione dello stato ma anche la nostra vitalità e creatività.
Insomma tanti spunti di riflessione regalati al lettore, con tatto e intelligenza,  affinché egli possa elaborarli e trovare le sue risposte quando in questo dialogo arriverà il momento, per lui, di prendere la parola. 
E, credetemi, questo momento, molto presto, arriverà.


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