La settimana scorsa è stata dura per mio padre e per me, è successo di tutto: lo stent si è bloccato, la cute peristomale si è lacerata rendendo difficoltosa l'adesione della placca (che sta ad uno stomizzato come la sedia a rotelle ad un paraplegico), lo stent si è sfilato. Una settimana scandita da dolore, ansia, preoccupazione e molta fatica, per inciso ho stabilito il mio record assoluto di veglia: 42 ore intervallate da involontari crolli della durata media di 10 minuti. Adesso va meglio anche se il problema della sensibilizzazione cutanea non è ancora del tutto risolto e lo stent continua ad ostruirsi.
Certe volte mi domando come faccia mio padre a sopportare tutto quello che la sua malattia gli riserva: gli interventi, il dolore, gli imprevisti , i controlli ancora frequenti, le sortite improvvise al P.S. (e la varia disumanità che vi si incontra) e l'ansia che in ogni momento potrebbe accadere di tutto.
Decisamente mio padre è un uomo coraggioso ma ultimamente ho come la sensazione che questo coraggio sia stia esaurendo:
"Dai papà tutto sommato sei fortunato: con due tumori, un linfonodo attaccato dalla malattia e a più di cinque anni dall'intervento, sei ancora qui a raccontarlo, non capita a tutti. E' vero hai tanti problemi però è solo questione di affrontarli via via che si presentano."
"Si ma io sono stanco di stare sempre male, così non si può vivere e se arrivasse la morte sarebbe meglio".
Il bello di quando, diventato adulto, un figlio si rapporta ad un genitore, è la sincerità estrema che caratterizza il rapporto. Essendo ormai cresciuto il figlio, il genitore non sente più il peso di mostrargli una versione edulcorata della realtà e, d'altra parte, il figlio gode finalmente della sincerità che decine e decine di volte aveva avuto la sensazione mancasse, inefficacemente sostituita da un soffocante senso di rassicurazione cosmica.
Io poi ho in grande considerazione questo cambiamento qualitativo perché per una vita ho "dialogato" con mio padre quasi sempre nella posizione di chi doveva conquistare terreno su fronti considerati dall'altro pericolosi e dunque difficilmente conquistabili. Il più delle volte la cosa si risolveva in una serie di autoritari "no" proferiti come atto di estrema difesa e tuttavia quelle continue negoziazioni sono state un'occasione preziosa per affinare le mie doti dialogiche ed oratorie. Poco importa se a vincere (o ad esser convinto di aver vinto) era quasi sempre lui. Oggi che i pericoli paventati dal genitore sono scomparsi o si sono materializzati rivelandosi, tutto sommato, meno perniciosi del previsto, siamo entrambi più rilassati e possiamo permetterci di mostrare quel lato umano che prima nascondevamo considerandolo un temibilissimo punto debole. Tutto molto bello e soddisfacente tuttavia, a volte, insopportabile. E così, in risposta alla paterna affermazione su esposta, sono rimasta qualche secondo in silenzio, ho ricontrollato medicazione e diuresi, ho augurato la buonanotte e me ne sono andata.
Per quanto io sia brava ad ascoltare, a cogliere gli aspetti positivi di situazioni anche molto difficili (e questa settimana, nella tragedia siamo stati anche molto fortunati) e quindi a consolare, questa volta non ce l'ho fatta.
Come fa un figlio a sentire il proprio padre, la persona che gli ha dato la vita, invocare la morte?
Questo è troppo anche per me.
Io capisco il suo stato d'animo e anche se mi vengono in mente decine di motivi per cui la sua vita vale ancora la pena di essere vissuta, mi astengo dal ricordarglieli perché rispetto quest'uomo che, prima ancora di essere mio padre, è una persona con una dotazione specifica di sensibilità e di risorse emotive che potrebbero essere in via d'esaurimento, a prescindere da tutto il resto.
"La persona prima di tutto" è il mio motto, che sia padre o figlio e tuttavia io non posso rimanere ad ascoltare mio padre che mi dice che, tutto sommato, "sarebbe meglio".
Che ne parli con mia madre, con gli altri figli, con amici o parenti ma con me no. Io ho da pensare a come curarlo perché, qualsiasi cosa dica, nei suoi occhi vedo ancora un fortissimo istinto di sopravvivenza in azione e perché, in certi casi, il coraggio non si può prendere dagli altri ma bisogna trovarlo, se ancora c'è, in se stessi.
Caro Matteo è equivoco frequente, soprattutto in gioventù, considerare i propri genitori esseri semi-onnipotenti, forti più di quel che sono, altruisti più di quel che la loro natura umana gli conceda d'essere, coraggiosi come fossero nati direttamente adulti. Insomma, e te lo dico da figlia, spesso i genitori tendono ad essere sopravvalutati dai figli che si aspettano da loro sempre il massimo. Il genitore lo sa e, il più delle volte, per quanto gli sia possibile, tende a corrispondere a queste aspettative vivendole come occasione di crescita e maturazione personale nonché come esempio di vita concreto per il proprio figlio. Tuttavia ci sono circostanze, che fatalmente aumentano al progredire degli anni, in cui anche un genitore, nonostante l'amore che nutre per i figli, sente di essere, prima che padre o madre, una persona, carica di limiti e imperfezioni e si sente autorizzato a vivere pienamente tali sentimenti. Di solito il figlio reagisce male sperimentando un profondo senso di delusione, arrivando a sentirsi tradito, pensando che la vita glia abbia destinato genitori di poco valore. Si può rimanere per anni in questo limbo emotivo finché, a sua volta, il figlio non inizia a sperimentare, per quanto ancora giovane e forte, i sentimenti di cui sopra. Allora avviene, quando davvero si è stati amati, una sorta di piccolo miracolo: proprio l'umanità dei nostri genitori rende prezioso e grande tutto ciò che loro ci hanno donato, sofferenze comprese. E' una cosa difficile da spiegare ma sicuramente capiterà anche a te e ne verrai fuori nel migliore dei modi perché sei un tipo in gamba e perché il tuo papà ed io ci stiamo impegnando molto per crescerti forte ed equilibrato.
La cosa invece che potrebbe crearti grandi problemi è accettare che ci sono dei limiti a quello che un figlio può chiedere al proprio genitore e che la disposizione alla vita è una di queste cose.
A volte succede questo, caro Matteo, che per quanto la vita di una persona sia piena di cose belle e importanti ella non trovi più interesse nel viverla. Questa cosa potrebbe accadere anche a me, perché sono nata guardando la morte in faccia e perché sono figlia di mio padre. Per quanto questo possa sembrarti assurdo, vorrei che tu ti convincessi che se una tal cosa dovesse accadere questo non avrebbe nulla a che fare con l'amore che io provo per te essendo invece qualcosa di più vicino alla natura unica e irripetibile della mia esistenza.
Ultimamente alcuni scienziati si stanno chiedendo se il blu oltremare che vedo io sia lo stesso che vedi tu (tipi curiosi questi scienziati!) mentre ormai sanno benissimo che il mio modo di percepire l'esistenza potrebbe essere diversissimo dal tuo, forse anche perché percepiamo il blu oltremare in modo diverso, chissà. Ci sono individui che vivono la vita come un dono ed altri che ne portano il peso fin quando sentono di poterlo fare. La cosa che devi aver chiara è che nel secondo caso non c'è niente e nessuno, al di là dell'interessato, che possa alleviare tale peso.
Se un giorno capirai, perché io avrò la delicatezza di non dirtelo direttamente, che la tua mamma ha perso la voglia di vivere non sentirti, per questo, "non amato" e non pensare che la tua vita valga poco perché a dartela è stata una persona che stima la sua così, ripensa piuttosto al blu oltremare e chiediti com'è che lo vedono quelli a cui vuoi bene.
E' l'unica cosa sensata che potrai fare.