sabato 21 dicembre 2013

5 ANNI!!!


Matteo ha compiuto 5 anni!




E come ogni anno si è ripresentato il problema di festeggiare il suo compleanno.
Si perché per me questa cosa rappresenta una scocciatura, un peso, un impegno che tenderei ad evitare. Mi rendo conto che un simile atteggiamento, se non denuncia qualcosa di patologico, quantomeno evidenzia un che di significativo ma, per quanto io ci pensi su, non riesco davvero a scoprirne le cause. Ogni anno aggiungo pezzettini di spiegazioni: quest'anno mi son detta che sono una persona incapace di sopportare l'ansia, anche quella minima connessa all'organizzazione di una festicciola di compleanno e che, a ben guardare, questo problema avrei dovuto affrontarlo tanti anni fa.
Comunque non ho potuto non tener conto dei desideri di Matteo. A dire il vero siamo giunti ad un compromesso. Invece della festa di compleanno con i coetanei (per carità: un'orda di bambini scalpitanti dentro casa, per di più accompagnati dai genitori) abbiamo optato per una cena con nonni, zii e cugini, "appena" 15 persone. Il tutto in piena emergenza "dai, dai che dobbiamo sbrigarci a raccogliere le olive prima che un'improvvisa grandinata ce le butti tutte per terra". 
Alla fine ce l'abbiamo fatta ed è stata una bella festa, nulla è andato storto (come sempre capita alle persone ansiose) e, cosa più importante, Matteo era felicissimo.
Cosa non farebbe un genitore per rendere felice suo figlio?
Si dovrebbe aver paura di rispondere a questa domanda.
Il mio gigantino  (25 kg. di peso per 117 cm. di altezza) ha 5 anni;
sono tanti, sono pochi, corrispondono alle sue effettive competenze cognitive, emotive e sociali? Non saprei e non sono interessata a saperlo. Mi basta vederlo sereno, vivace, dolce e pieno di fantasia.
E però l'anno prossimo Matteo andrà a scuola e, quando ci penso, le mie sicurezze cominciano a vacillare.
La sera prima del suo compleanno gli ho detto: 
"Ma lo sai che cinque anni fa, a quest'ora, tu ancora non c'eri? E dove stavi?" 
E lui, prontamente: 
"Con la cicogna!".
E ancora: spesso mi dice che da grande vuole fare il supereroe per salvare le persone ma che per farlo ha bisogno che il papà gli costruisca una spada vera; allora io gli dico che anche i medici o i pompieri salvano le persone e lui mi risponde che però solo i supereroi combattono i cattivi.
Insomma Matteo, ancora immerso in  una dimensione dominata dalla fantasia, l'anno prossimo inizierà a fare i conti con la realtà.
Pensare che, per quanto male se ne possa dire, il sistema scolastico italiano funziona bene e ormai le maestre posseggono le competenze pedagogiche necessarie e sufficienti per gestire l'ingresso a scuola dei bambini, non mi tranquillizza.
Forse perché non è di essere tranquillizzata che ho bisogno: ho bisogno di essere consolata.
Insensatamente sono triste perché penso che Matteo sta crescendo; presto il pensiero razionale, la crescente autonomia, la complessità emotiva, il senso del pudore prenderanno il sopravvento trasformando un bambino che appena adesso comincio a comprendere in un essere ancora più complesso.
Mi sforzo di essere ottimista, mi dico che sono abbastanza presente e attenta da cogliere il cambiamento ed accompagnarlo.
Succede di continuo: la sera del suo compleanno, tra lo scompiglio che ogni festa ben riuscita si porta dietro, mi sono lasciata sfuggire una domanda un po' scorretta: 
"Allora Matteo che ne pensi: papà e mamma se lo sono meritato un bacio per questa festa che ti hanno preparato?" 
e lui, voltandosi verso il padre e con un tono per niente interessato né compiacente: 
"Papà, grazie per questa bella festa".
Ecco, mi sarei aspettata che corresse verso di noi per darci un bacione o che rispondesse: "si mamma" invece la sua risposta è stata sorprendente; a parte il senso di riconoscenza che ho percepito nella sua voce, quello che mi ha colpita è stata l'elaborazione personale e autonoma della risposta. Ho realizzato in  quel momento che il cervello di mio figlio inizia a funzionare in modi che non sono più prevedibili come accadeva fino a poco tempo fa.
E quel rivolgersi al papà invece che a me è stata una cosa che davvero mi ha riempito il cuore di gioia. Cominci a capire, caro Matteo, che l'amore è qualcosa di diverso dall'affettuosità?
E ancora: da qualche notte Matteo si addormenta da solo. Dopo esserci preparati e aver letto uno dei suoi libri ("uffa mamma ma tu mi regali sempre libri!") mi dice: 
"adesso mamma vai di là perché io dormo da solo e non venire a controllare". Il tutto all'improvviso senza che io gli "suggerissi" alcunché.
Evidentemente il gigantino deve aver conosciuto la signora vestita di luce viola


"Ma quando è stato?" mi son chiesta, "Quando è passata? Possibile che io non mi sia accorta di nulla? 

Con questo ritmo in quest'anno potrebbero accadere cose sorprendenti e decisive anche al netto di quel tipico andamento altalenante di molti bambini (compreso il mio) che spesso tendono a "tornare indietro" verso modalità comportamentali e sociali tipiche di fasi di sviluppo precedenti, come fossero tanti piccoli gamberi.
Dunque non mi resta che tranquillizzarmi e farmi una ragione del fatto che mio figlio sta crescendo.
Smetterà (forse) di essere l'infante dolce e affettuoso che è adesso ma potrebbe sempre diventare un bambino altrettanto sorprendente.
Ad maiora.



venerdì 15 novembre 2013

Degustazioni letterarie: "L'uccello che girava le viti del mondo" - Murakami Haruki

"Al mattino, Creta aveva perso il suo nome. Mi chiamò adagio poco dopo l'alba. Io mi svegliai, aprii gli occhi, e guardai il raggio di luce che entrava da una fessura nelle tende. Poi la vidi, seduta di fianco a me nel letto che mi guardava. Invece del pigiama si era messa una mia vecchia maglietta, ed era tutto quel che aveva indosso. Nella luce del  mattino, i suoi peli pubici splendevano, nerissimi. 
- Sai, ormai io non ho più un nome, - disse. Aveva smesso di essere una prostituta, di essere una medium, e di chiamarsi Creta.
- Okay il tuo nome non è più Creta, - risposi strofinandomi gli occhi con le dita. - Congratulazioni. Ormai sei una persona nuova. Ma io come devo chiamarti, d'ora in poi, se non hai più un nome? Mettiamo che mi trovi dietro di te e ti debba chiamare, come devo regolarmi?
La ragazza che fino alla sera prima rispondeva all'appellativo di Creta scosse la testa.
- Non lo so. Forse sarebbe meglio che mi trovassi un altro nome. Una volta ce l' avevo, sai, un nome vero. Ma è quello che usavo quando facevo la prostituta, e non ne voglio più sentir parlare. Poi quando ho smesso di prostituirmi mia sorella Malta mi ha messo il nome Creta, per farle da medium. Ma ormai io non sono più né l'una né l'altra cosa, e ho bisogno di un nome nuovo di zecca per questa nuova me stessa. Nessuna idea signor Okada? Un nome che si addica al mio nuovo io.
Ci pensai un po' su, ma non mi  venne in mente nulla di appropriato.
- Forse dovresti trovartelo tu, non credi? Visto che d'ora in poi sarai una persona nuova, indipendente. Penso che sia la cosa migliore, anche se ci  metterai un po' di tempo.
- Ma è molto difficile trovare un nome giusto per se stessi.
- Certo non è semplice. In certi casi un nome esprime tutto, - dissi. - Forse a questo punto dovrei perdere anch'io il mio, come te. Qualcosa mi dice che farei meglio.
La sorella di Malta si sollevò sul letto, stese una mano e mi toccò la guancia destra, sulla quale doveva ancora esserci una voglia della grandezza della mano di un neonato.
- Se tu adesso perdi il tuo nome, come ti posso chiamare?
- Uccello-giraviti, - dissi. Almeno io avevo un nuovo nome.
- Uccello-giraviti ,- ripeté lei. Poi restò un momento a guardare quelle due parole fluttuare nell'aria. -Penso sia un nome bellissimo, me che razza di uccello è?
- Esiste davvero. Che aspetto abbia però non  lo so, non l'ho mai visto,  l'ho solo sentito cantare. Si ferma sul ramo di un albero da queste parti, e si mette a stringere una dopo l'altra le viti del mondo, con un rumore stridente. Se smette, il mondo smette di funzionare. Però non lo sa nessuno. Tutti pensano che ci sia qualcosa di più grande, più complicato e più bello a far girare il mondo. Invece lo fa girare lui, si sposta da un posto all'altro e a mano a mano che si sposta va stringendo le viti. Sono viti molto rudimentali, sembrano quelle dei giocattoli. Basta solo farle girare. Però le può vedere solo l'uccello giraviti.
- L'uccello-giraviti, - ripeté l'ex Creta. - Che gira le viti del  mondo.
Alzai il viso e mi guardai intorno. Era la solita stanza che conoscevo bene, ci dormivo da quattro o cinque anni. Eppure sembrava stranamente vuota e ampia.
- Purtroppo però non so dove si trovino, quelle viti, - dissi. - E neanche che aspetto abbiano.
Lei posò le dita sopra la mia spalla. Poi con i polpastrelli disegnò dei piccoli cerchi.
Io ero steso supino, e guardavo in silenzio una piccola macchia sul soffitto, aveva la forma di uno stomaco. Si trovava proprio sopra il mio cuscino, ma non mi ero mai accorto che ci fosse. Da quando era lì? Da prima che io e Kumiko andassimo a vivere in  quella casa? Oppure si era installata lì in silenzio, trattenendo il fiato, proprio sopra di noi, mentre noi dormivamo insieme in quella stanza? Finché un mattino mi ero accorto della sua presenza.
Sentivo di fianco a me il respiro caldo della donna che una volta si chiamava Creta. Sentivo l'odore dolce del suo corpo. Lei continuava a disegnare piccoli cerchi sulla mia spalla. Avrei voluto prenderla ancora una volta tra le braccia, magari, ma non sapevo giudicare se fosse un'azione corretta o no. I rapporti tra le cose, alto e basso, destra e sinistra, erano troppo intricati. Rinunciai a pensare, e continuai a guardare in silenzio il soffitto. Finché lei non venne a sedersi sopra di me, e mi baciò leggermente sulla guancia destra. Quando le sua labbra morbide toccarono la voglia, provai una sorta di profondo torpore.
Chiusi gli occhi, e tesi le orecchie ai rumori del mondo. Sentii tubare da qualche parte un piccione. Costantemente, con pazienza. Quella voce era piena di affetto nei confronti del creato. Celebrava l'arriv del mattino estivo, e annunciava alla gente l'inizio di una giornata. Però non bastava, pensai, qualcuno doveva farlo girare, il mondo.
- Penso che un giorno riuscirai a trovarle quelle viti, sai?- disse l'ex Creta.
- Se è così, - le chiesi senza aprire gli occhi, - se un giorno riuscirò a trovarle e a stringerle, le cose torneranno a posto, questa vita insensata finirà?
Lei scosse in silenzio il capo. Nei suoi occhi apparve una leggerissima traccia di compassione.
- Non lo so, - disse.
- Non lo sa nessuno, -  risposi.
- Al mondo ci sono cose che è meglio non sapere, - aveva detto il tenente Mamiya."

  

Se parlare di libri fosse semplice quanto leggerli, di certo la gente invece di chiacchierare del tempo discuterebbe di letteratura. Non è solo per far conoscere libri che ritengo degni di essere letti che scrivo le mie "Degustazioni letterarie" e gli "Assaggi di saggi", è anche e soprattutto perché ad un certo punto della mia vita mi son resa conto di non conservare memoria di tanti libri che pure avevo letto. Dunque leggere e poi interrogarsi sul senso, sullo stile, sul messaggio di ciò che si è letto è un modo efficacissimo per collocarlo nella propria memoria ed evitare che sia stato tempo perso (la lettura non è mai tempo perso, sia chiaro, ma non è bello considerare che poco o niente si ricordi di qualche cosa che pure ci ha preso del tempo e ci ha suscitato delle emozioni).
Detto questo, ci sono libri con i quali questa attività di riflessione risulta particolarmente difficile, "L'uccello che girava le viti del mondo" è uno di questi.
Apparentemente si tratta della storia di un uomo che improvvisamente viene abbandonato dalla moglie e, nonostante questa gli faccia sapere che non vuole più vederlo né sentirlo, inizia a cercarla in maniera ossessiva, riuscendo alla fine a trovala.
Potrebbe sembrare una trama abbastanza semplice ma Haruki Murakami l'articola in  maniera immaginifica e complessa, trasportando protagonista e lettore in una dimensione parallela e oscura, accerchiandoli con personaggi surreali eppure ben caratterizzati e definiti. E il lettore non può far altro che affidarsi al protagonista. Ci si perde, ad un certo punto, e forse proprio questo voleva Murakami perché, da quel momento, il lettore diventa degno compagno di viaggio del protagonista, lo affianca, vagamente impaurito e sconcertato, in questo tortuoso percorso attraverso dimensioni spazio temporali lontane ma, in qualche modo, parallele dove ciò che accade ha ripercussioni nella vita reale. Difatti agendo in questi luoghi il protagonista riuscirà infine a ritrovare sua moglie. Ma il percorso che fa (e noi con lui) è davvero complesso e sovraccarico di significati. 
Questo non è certo un libro di quelli che si possano regalare al cognato mediamente acculturato a Natale (ché se poi decidesse di tirarvelo addosso potrebbe provocare un vistoso ematoma). Modestia a parte, questo è un libro per veri amanti della lettura, quelli che anche se si stanno annoiando a leggere i ricordi di un ex combattente della guerra della Manciuria (che vanno avanti da più di venti pagine) non si mette a pensare "quanto manca?", piuttosto ascolta quello che lo scrittore ha da dire con fiducia e curiosità per ritrovarsi, alla fine, ad ammirare la bravura dell'autore, che proprio in quelle pagine angosciose e, apparentemente lontane dalla vicenda principale, ha collocato la chiave per risolvere la ricerca. 
C'è poco da dire: su questo romanzo potrei scrivere molto senza riuscire a renderne la grandezza e la complessità. 830 pagine (in letteratura le dimensioni contano) delle quali l'autore ha una perfetta padronanza e sulle quali rivendica assoluta autorità. Difatti a Murakami interessa poco rassicurare il lettore e chiarire i punti oscuri, anzi sembra quasi provocarlo con una serie di domande che, alla fine, lascia senza risposta (a questo senso di smarrimento contribuisce anche il fatto che quello che leggiamo come un romanzo è in realtà la somma di tre volumi che in Giappone furono pubblicati separatamente), ne consegue, per il lettore, uno strano senso di spaesamento che tanto stride con la normalità finalmente ritrovata dal protagonista. Perché, alla fine, questo mi pare essere il nucleo del libro: posto che quella che conosciamo come realtà è solo l'espressione di un modo di stare al mondo (quello della maggior parte degli esseri umani), laddove a pochi è permesso di andare oltre (peraltro non senza conseguenze permanenti), tuttavia la nostra vita non può che svolgersi nell'ambito ristretto e pur condiviso che definiamo e collettivamente riconosciamo come "realtà". Questo è appunto il motivo per cui il protagonista pur incontrando una congerie di personaggi (per lo più femminili) tutti particolarissimi, intriganti e, a loro modo, seducenti non perde mai di vista lo scopo ultimo della sua ricerca: capire perché sua moglie l'ha abbandonato e dunque riportarla presso di sé. La grandezza di Murakami (anche quest'anno nella rosa dei candidati al Nobel per la letteratura ) sta proprio nell'originalità con cui intreccia i vissuti di questi personaggi con quelli del protagonista come se la vita di questo fosse non solo predeterminata ma addirittura preventivamente segnata dalla loro.
Ma ho parlato troppo, non sono riuscita a rendere neppure in minima parte la grandezza di questo romanzo e sono consapevole che tutto ciò che ho detto potrebbe essere usato contro di me da chi per lavoro si occupa di libri. Perdonatemi: astenermi dal commentare "L'uccello che girava le viti del mondo" sarebbe stata forse la cosa più semplice da fare eppure non ho saputo resistere alla tentazione di contagiarvi con l'ammirazione che ho provato nel leggerlo.
In conclusione, se amate la grande letteratura, fatevi un regalo: leggete questo libro!
E se decidete di farlo, ricordate le parole di De André:

"...il secchio gli disse -Signore, il pozzo è profondo, 
più fondo del fondo
degli occhi della notte del pianto.
Lui disse -Mi basta, mi basta che sia più profondo di me.
Lui disse -Mi basta, mi basta che sia più profondo di me."





mercoledì 13 novembre 2013

IV comandamento





E' la cosa più sensata che mi è venuta in mente dovendo spiegarmi cosa ci facessi, in equilibrio instabile, su una pianta di ulivo abbastanza giovane da potersi spezzare da un momento all'altro.
Fortuna che peso poco, la foto inganna.

Addendum 15 novembre: Ripensandoci: non ho detto "albero", ho detto "pianta" ergo la cultura contadina dei miei genitori mi ha permeata più di quanto pensassi; 
difatti ieri è arrivato il primo olio: 125 litri e siamo circa alla metà del raccolto.
In effetti ero inerpicata lì sopra anche per questo.



mercoledì 9 ottobre 2013

Vajont: cinquant'anni di dolore


"Il processo viene fissato per il 26 giugno. Ma in maggio i superstiti ricevono un'altra stangata: la Cassazione ha trasferito il dibattimento a l'Aquila per "legittima suspicione". Cos'è? si domanda la gente. "Hanno ritenuto che voi siete d'impiccio; potreste organizzare disordini". Sempre in maggio, la stessa Corte di Cassazione revoca il mandato di cattura per Biadene e Tonini. La speranza di giustizia dei sopravvissuti, implorata e gridata per quattro anni, si fa più tenue. Ma si continua a lottare. I consigli comunali di Longarone, Castellavazzo, Erto divulgano una "lettera aperta al popolo italiano" appellandosi al Paese, al capo dello Stato, al parlamento, alla magistratura. Ma tutto avviene, d'ora in poi lontano da loro e contro di loro. Il Vajont sta assumendo un'altra dimensione per la coscienza pubblica: è divenuto un luogo turistico da visitare. Con curiosità, forse con pietà, mai con ribellione."
"Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont" Tina Merlin


Sono passati cinquant'anni da quel 9 ottobre del 1963 giorno in cui si è verificata una delle tragedie più dolorose della storia d'Italia.
Sarei nata più di dieci anni dopo e per moltissimo tempo ho vissuto senza sapere ciò che era successo, poi nel 1997 ho visto "Il racconto del Vajont 1956/9-10-1963"


di Marco Paolini e, da allora, il Vajont è diventata parte integrante della mia storia.
Certo: la bravura di Paolini, che spiega cosa è avvenuto con semplicità e chiarezza, con un'ironia che lentamente si tramuta in drammaticità, ha avuto un peso ma la cosa sarebbe potuta finire lì e invece ho pure letto il libro dal quale lo spettacolo di Paolini è stato tratto "Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont" di Tina Merlin .
La tragedia del Vajont mi è subito sembrato uno di quei drammi che non rimane sepolto dagli anni che passano, vivido nella memoria dei sopravvissuti e di pochi altri, tragico errore verificatosi una volta per tutte e mai più. No: a conoscerlo un minimo si capisce bene che "il caso Vajont" ha tanto da insegnare a noi italiani e, semmai sia possibile trarre qualcosa di buono da una tale tragedia, allora è adesso (e sarà sempre) il momento giusto per farlo. 
Dunque cosa ho capito di questa tragedia?
Prima di tutto che il Vajont non è stata una "catastrofe naturale" ma un vero e proprio "eccidio" come peraltro denunciò subito chi ebbe modo di conoscere da vicino alcuni dei dirigenti della "SADE" (la società che che costruì la diga) e come ci ricorda oggi chi, memore di quella consapevolezza, si è deciso a parlare. Tutto il libro della Merlin è un'accorata testimonianza degli sforzi che ella fece per aiutare gli abitanti di Erto e Casso,"montanar, cuntadin, gnuranti", come li definisce Paolini, a far valere i propri diritti. Loro quella diga non la volevano, in principio perché la sua costruzione avrebbe comportato l'allagamento dei terreni su cui sorgevano le loro case e che coltivavano, poi perché iniziarono a vedere che il monte Toc si stava muovendo come mai aveva fatto a memoria d'uomo. Ma a nulla valsero le loro proteste, la società costruttrice arrivò persino all'esproprio forzoso creando conti bancari sui quali accreditò le somme che dovevano "risarcire" i proprietari dei fondi. L'Italia di quegli anni aveva bisogno più che mai di energia elettrica. Tutto il resto passò in secondo piano.
Ora, mi rendo conto che il paragone farà storcere il naso a molti ma quando penso alle proteste della gente del Vajont non posso fare a meno di pensare ai no TAV. Certo le opere in questione sono molto diverse tra loro come pure i rischi legati alla loro realizzazione tuttavia siamo, anche qui, difronte ad un dissenso forte che invece di essere ascoltato e compreso, al limite mediato, viene ignorato bellamente nonostante ci siano decine di studi scientifici che denunciano la sostanziale inutilità dell'opera. 
Passano gli anni ma non cambiano le modalità con le quali il potere cerca di imporre le sue decisioni ai cittadini. Nessuno sembra essere disposto ad imparare dagli errori di chi ci ha preceduto anche quando sono grandi come una montagna, che sia essa franata o bucata.
Ma allora non si può trarre nulla di buono dall'eccidio del Vajont? Possibile che tutto il dolore scoppiato in quattro minuti e ancora vivo tra i sopravvissuti, tra i soccorritori, tra quelli che videro coi loro occhi e quelli che vedono solo adesso, non serva a niente?
E' comunque degno di nota e positivo che a distanza di cinquant'anni lo Stato chieda scusa e ammetta che la "tragedia" del Vajont poteva essere evitata ma questa ammissione diventa sterile e quasi offensiva se non la si cala nell'odierna realtà del nostro paese.
Ecco mi piacerebbe, perché sarebbe il modo migliore di rendere omaggio ai 1917 morti e ai loro parenti, che il Vajont non fosse solo un doloroso ricordo che tocca la nostra dimensione umana ma un vivo promemoria che dirige la nostra condotta civile.
Questo lo dobbiamo alle vittime di allora e ai sopravvissuti di oggi; questo sarebbe il modo migliore per onorare la memoria di quanti allora persero la vita per essersi fidati di uno Stato che non ha saputo garantire il loro diritto più grande.


Alle vittime del Vajont, ai loro familiari, ai sopravvissuti, ai soccorritori e a tutti coloro che vissero e vivono ancora un dolore troppo grande per essere sopportato da un essere umano.


domenica 1 settembre 2013

Intermezzo creativo (questo l'ho fatto io!!!)


La creatività è una delle cose che distingue l'uomo dagli altri animali (sarebbe il caso di iniziare a riflettere seriamente sulle altre, in primis sulla sventurata tendenza dell'uomo a distruggere il suo habitat naturale), l'origine di qualsiasi umana conquista.
Pare che essa, come quasi ogni umana dote, si manifesti nell'età adulta tanto più è stata stimolata nell'infanzia.
Da piccola non ho mai giocato con le bambole, ne avevo pochissime e tutte in bella mostra, ancora impacchettate, sull'armadio, in modo che non le potessi toccare. Non che mia madre fosse sadica o insensibile, tutt'altro, era solo (come ho realizzato anni dopo) che per lei quegli oggetti erano qualcosa di bello e prezioso come tutto ciò che si è desiderato durante l'infanzia senza mai averlo avuto.
Va detto che però avevo una stupenda enciclopedia per ragazzi: "conoscere ieri oggi e domani" che sfogliavo quotidianamente, attratta dalle bellissime illustrazioni e dalle spiegazioni chiare ed esaustive. Sulle cose apprese per gioco su quei volumi (perché il gioco è la chiave di qualsiasi apprendimento infantile) ho vissuto di rendita fino a tutte le scuole medie inferiori.
Comunque, tornando al discorso principale, spesso penso che la mia totale incompetenza a curare il mio aspetto esteriore e il mio modo di vestire derivi dal non aver giocato con le bambole quando avrei dovuto farlo. Giocoforza è stato poi attribuire all'estetica corporea una posizione bassissima nel mio sistema di valori. Fortuna che Matteo è un maschietto altrimenti non avrei saputo proprio come fare con vestitini, acconciature, accessori e imbellettamenti vari (ma chi può dirlo? Magari me la sarei cavata lo stesso).
Tuttavia il senso estetico è un'altra fondamentale prerogativa umana: non importa quale sia il nostro livello d'istruzione, la parte del mondo in cui viviamo, le nostre personali inclinazioni: l'essere umano è sensibile al bello e se c'è qualcuno che non lo è, esso non è un uomo.
Quanto bisogno ci sarebbe oggi di bellezza!
Trovarla è sempre più difficile e, alle volte, non resta che "fabbricarsela" con le proprie mani


Il che è ancora più soddisfacente: proprio queste MIE mani hanno creato (peraltro utilizzando materiali poverissimi e destinati alla pattumiera) una cosa obbiettivamente bella.
Forse per l'uomo c'è ancora speranza: dovremmo essere costretti a creare una cosa bella almeno due volte all'anno. Creare bellezza potrebbe essere la nostra unica via di salvezza.
Creare cose belle e donarle a chi le merita.
E a chi ho donato questo mazzo di rose?
Semplice: alla persona cui naturalmente si regala ogni bel fiore che si trova: alla mamma.
Grazie mamma, per ogni cosa.



Per il cestino ho seguito questi tutorial

Per le rose di carta:
1. Magaia5

Tutte ringrazio per aver condiviso il loro saper fare con me.


mercoledì 21 agosto 2013

Anatomia comparata


Anche a rischio di attirare orde di internauti pervertiti ("Che brutto mondo signora mia...") questa è stata troppo simpatica e me la voglio annotare:
stavo facendo la doccia a Matteo, ad un certo punto lui richiama la mia attenzione, mi guarda serio e mi dice:
"Mamma tu devi mangiare più verdure sennò la tua pisellina non diventa mai grande!"

"Heee?!!!" Faccio io lievemente frastornata.

"Si perché le verdure fanno diventare grandi e la tua pisellina è piccola perché tu mangi poche verdure".
"A parte che io le verdure le mangio" faccio io un po' piccata 
"ma poi tanto la mia pisellina è già grande".
E lui un po' seccato: 
"E allora perchè non è lunga lunga come il pisilleno di papà?".
Dopo un momentino (i bambini vanno presi sul serio) di risata libera ho proceduto alle doverose spiegazioni sul fatto che chissà perché (non è ancora il caso di svelare il mistero) il pisellino e la pisellina sono diversi nelle femmine e nei maschi come le sisotte, del resto.
Matteo è sembrato soddisfatto della spiegazione (fortuna che la fase dei perché da qui non è ancora passata e non mi venite a dire che questo rappresenta un problema semmai lo è per chi ci ha a che fare) e abbiamo cambiato discorso; senonché, mentre gli asciugavo i capelli  mi fa:
"mamma guarda cosa ci faccio al mio pisellino" armeggiando con lo stesso,
"e tu che ci fai con la tua pisellina?"
"..."
"Mah...non so...cioè...
Insomma io mica la posso allungare come fai tu, è diversa".

"Ce l'ho fatta" penso io ma poi lo guardo e gli vedo un'espressione che più o meno doveva essere la mia quando il vecchio saggio mi chiedeva se avevo capito una cosa che mi aveva appena spiegato e io, mentendo, rispondevo "si, si" al che lui me la rispiegava.
"Vabbè" (che sembra una parolina insignificante e invece...) faccio io 
"adesso ti faccio vedere così capisci" 
e mentre mi guardava un po' divertito (cioè: i bambini sono naturalmente ferrati nella logica, volete che a cinque anni uno non inizi a chiedersi perché i suoi simili non scoprano mai solo alcune zone del corpo?) mi sono spogliata esponendomi alla sua curiosità e pensando 
"starò mica facendo una ca***ta?" ma poi mi son detta 
"diamine: è mio figlio, mica il mio ginecologo: un po' di leggerezza". 
E così è saltata fuori una mini lezione di anatomia nella quale Matteo ha sfiorato, toccato e stiracchiato chiedendo e ipotizzando, arrivando a disegnare sulla mia pancia la collocazione degli ureteri mentre farfugliava di "tubicini che vanno su". 

Poteva finire lì e invece:"ma allora non cresce più?"

"No a mamma, è già grande. Per capirlo dovresti vedere quella della tua cuginetta Aurora che è piccola
(?!!!)
ma non esageriamo...però...possiamo fare così...:"
"Papaaà, puoi venire un attimo in bagno...?"

E così poiché oltre ad avere una mamma un po' svitata ha anche un papà che, per quanto sia dia arie di genitore buono ma severo, quella svitata l'ha scelta tra tante (più normali)
Matteo ha infine capito.
Fiuuuuuh!


domenica 18 agosto 2013

Stanziali vs migranti di ritorno

Sicampeggia non va mai in vacanza, principalmente, ma non solo, per motivi economici ella vive dodici mesi all'anno nello stesso luogo: un paesino di alta collina nel centro Lazio accuratamente arroccato tra le montagne. La cosa in sé non sarebbe poi tanto male non fosse che sono gli altri a venire in vacanza qui. Orde di villeggianti in cerca di frescura e relax ogni anno puntualmente assediano seconde e terze case, invadono camere degli ospiti di genitori e zii (peraltro dimenticati allegramente per il resto dell'anno) costringendo noi stanziali a razionamenti idrici e interminabili conversazioni di circostanza ogni volta che mettiamo il naso fuor dalla porta.
Generalmente sicampeggia (che è persona dalle spiccate tendenze misantrope) ovvia a queste infinite scocciature riducendo al minimo le uscite tuttavia, avendo ella ormai un gigantino di quasi cinque anni di età da far crescere uso alle civili consuetudini, quest'anno ha dovuto subire lo sfinimento della festa di ferragosto.
Trattasi di festa popolare che si svolge nella piazza del paese alla presenza di stanziali e migranti di ritorno, tutti tirati a lucido e provvisti di inossidabili sorrisi, i quali passeggiano freneticamente ai piedi del palco dove si esibisce l'artista di turno.
Tra uno zucchero filato, un giro in giostra e un acuto stonato fioccano i "ciao, come stai?", "da quanto tempo...", "mi ha fatto tanto piacere rivederti", "andiamo a farci una pizza un giorno di questi". Sicampeggia ligia al pregiudizio che l'abitante del paesino di alta collina sia per definizione calmo e sereno (non dovendo, generalmente, preoccuparsi di affitti da pagare, traffico da dribblare e afa cittadina da sopportare) usualmente risponde con la massima cortesia fingendo entusiasmo e interesse.
Tuttavia lo scorso quattordici agosto ha fatto un'eccezione in onore della sua ex-quasi migliore-amica.
Dopo una serata passata a sentire lamentele di cittadini villeggianti sul palco posizionato male, il parcheggio lontano, la protezione civile impreparata (la stessa che a mani nude aveva liberato l'accesso ai portoni di casa di vecchiette sole e semi assiderate in occasione del grande gelo, un metro e oltre di neve senza nemmeno un Alemanno di passaggio) che avevano semi esaurito la sua pazienza, ecco la soggetta avvicinarsi a papà camp e proferire:
"Ah ma siete voi, mi pareva...Allora come va?" con l'artefatta cadenza tipica del provinciale trapiantato in città affetto da complesso di inferiorità linguistico dialettale.
"Ma sei proprio di coccio", ho pensato io, "è tutta la serata che faccio finta di non vederti e capiscilo che non mi va di fingere di essere contenta di parlarti, ci vuole tanto?"
E allora in onore della passata amicizia (morta, sepolta e serenamente dimenticata) rispondo:
"molto bene e tu?" 
e lei "si anche a me tutto bene" 
e io penso "e si: lo capisco da questa bella voce nasale all'avv. Agnelli che la vita ti sorride!" 
e io "e come mai qui? Non ti si vede mai da queste parti" "con mio grande sollievo" 
e lei "Ah si infatti quest'anno sono qui proprio per sbaglio
"mannaggia" penso io e poi lei 
"ma questo bellissimo bambino è uno spettacolo, quanto ha adesso?" 
"cinque anni a fine novembre" 
"ah, ma è incredibile, cinque anni!". 
"E certo che è incredibile è la prima volta che lo vedi!".
E io che di solito invito Matteo ad elargire baci e bacetti a destra e manca l'ho guardato con espressione rassicurante della serie "lo so Matteo: somiglia tanto alla strega cattiva ma se la ignori è inoffensiva".
"Vabbbeene adesso vi saluto, mi ha fatto piacere incontrarvi"
"Ok ciao".
"Vabbè" mi son detta "il peggior incontro che avrei potuto fare l'ho fatto, adesso è tutta discesa".
Cara ex-quasi migliore-amica rivederti non m'ha fatto per nulla piacere, come peraltro avrai chiaramente notato, ma, nonostante lo sguardo rassicurante a Matteo, ho sempre avuto dubbi sulla tua reale natura dunque approfitto per un esorcismo musicale, non si sa mai...
Certo Daniele Silvestri è un po' troppo per te (fautrice di un'indipendenza narcisistica che sfiora la patologia) tuttavia qualcosa in questa canzone mi ti ricorda e così


Solo un favore: la prossima volta non ti sbagliare, vai da un'altra parte a riposare!!!


domenica 4 agosto 2013

Pro bono

E non so dirvi la felicità nell'andare a letto sapendo di non sentire più urla di dolore dal piano inferiore.
Ce l'abbiamo fatta: i dolori che assillavano papà non ci sono più!!!
Miracolo?!!!
Macchè:

Abbiamo eliminato lo stent ureterale doppio J

che come volevasi dimostrare era la causa del dolore

sostituendolo con uno stent ureterale mono J

perché uno stent è necessario.
E accidenti: c'è voluto un anno, il rischio di una dipendenza da farmaci analgesici e quello di gesti estremi.
Perché tanti dottori (non solo quelli in medicina) ti fanno domande ma poi non riflettono sulle risposte che dai:

"Da quando soffre di questi dolori?".
"Da quando ho messo lo stent, non è che sia proprio questa la causa?".
"No: il dolore da stent è diverso e poi la localizzazione non corrisponde".
"Ma non si potrebbe cercare un'alternativa a questo stent?"
"...".

L'alternativa ce la siamo cercata da noi e fortunatamente l'abbiamo trovata. Neanche ci speravamo più di tanto: lo stesso urologo che ce l'ha proposta non era sicuro dei risultati. E invece dal giorno stesso dell'intervento i dolori sono cessati e papà non usa più antidolorifici di sorta.
Soffre di un fastidio costante alla stomia ma niente di lontanamente paragonabile alla situazione di solo un mese fa.
Va anche detto che l'impatto sul sé corporeo è pesante: un tubicino di venti cm che fuoriesce da una stomia non è il massimo (prima non si vedeva nulla); e anche le operazioni di cambio placca sono diventate più complesse ma

il dolore non c'è più.

Quando torneremo da quelli che "doppio J forever" ci prenderemo la nostra soddisfazione: quella di dare un senso a questa brutta esperienza, consigliando ai "dottori" di ricordarsi di noi, nel caso incontrassero un altro paziente coi problemi di papà (ma se prima di andare da loro sarai capitato qui, sarà anche meglio) invece di farlo disperare a vuoto.
Però che bello quando le cose vanno per il verso giusto: ci si sente presi da un senso di riconoscenza cosmica che spinge ad atti di altruismo un po' folle dunque:

caro navigatore disperato qui giunto per aver digitato le parole "dolore", "stent ureterale", "doppio j", "briker" e via dicendo, spero di esserti stata utile, se hai bisogno di chiarimenti puoi usare la mail ma soprattutto (da una che sa quello che stai passando):

Coraggio!



giovedì 6 giugno 2013

Degustazioni letterarie: "Il valzer degli addii" - Milan Kundera


"Jakub trovò l'amico nel suo studio, appena tornato dal policlinico. Gli fece i complimenti per l'esibizione della sera prima e si scusò per non averlo aspettato dopo il concerto.
-Mi è molto dispiaciuto- disse il dottor Skreta. -E' l'ultimo giorno che passi qui e la sera te ne vai a spasso chissà dove. Avevamo tante cose da dirci. Ma il peggio è che sei stato sicuramente con quella ragazzina pelle e ossa. Devo constatare che la riconoscenza è un bruttissimo sentimento-.
-Ma quale riconoscenza! Perché dovrei esserle riconoscente?-.
-Mi hai scritto che suo padre aveva fatto molto per te-.
Quel giorno il dottor Skreta non doveva fare visite e il lettino ginecologico in fondo alla stanza era vuoto e inoperoso. Gli amici si sedettero in poltrona, uno di fronte all'altro.
-Ma no- disse Jakub riprendendo il discorso. -Volevo soltanto che tu la prendessi a cuore e mi era sembrato più semplice dirti che avevo un debito di riconoscenza con il padre. Ma in realtà le cose non stanno affatto così. Visto che ormai taglio i ponti col passato, te lo posso dire. Sono finito in prigione, quella volta, col pieno consenso di suo padre. Fu suo padre a farmi condannare a morte. Ma sei mesi dopo fu lui stesso a finire così, e io invece ebbi fortuna e la scampai-.
-In altre parole, è la figlia di un porco'- disse il dottor Skreta.
Jakub alzò le spalle: -Era convinto che io fossi un nemico della rivoluzione. Tutti glielo ripetevano e lui ci credette-.
-E perché mi hai detto che era un tuo amico?-.
-Eravamo amici. E tanto più importante è stato per lui votare per il mio arresto. In quel modo dimostrava di porre gli ideali più in alto dell'amicizia. Quando mi ha denunciato come traditore della rivoluzione gli è parso di far tacere il proprio interesse personale in nome di qualcosa di superiore e ha vissuto la cosa come la grande azione della sua vita-.
-Ed è questa la ragione per cui vuoi bene a quella ragazza bruttina?-.
-Ma lei non ha niente ha che vedere con questo. Lei è innocente-.
-Di innocenti come lei ce n'è a migliaia. Se l'hai scelta in mezzo a tutte è sicuramente perché è la figlia di suo padre-.
Jakub alzò le spalle e il dottor Skreta continuò: -In te c'è qualcosa di perverso esattamente come in lui. Ho l'impressione che anche tu vivi la tua amicizia per quella ragazza come la più grande azione della tua vita. Hai soffocato dentro di te l'odio naturale, il disgusto naturale, per provare a te stesso che sei generoso. E' bello, ma è anche contro natura e del tutto inutile-.
-Non è così- protestò Jakub. -Non ho voluto soffocare niente dentro di me e non ho cercato di mostrarmi generoso. Ho semplicemente avuto pietà di lei. Subito, la prima volta che l'ho vista. Era ancora una bambina quando l'hanno cacciata di casa, ha vissuto con la madre da qualche parte in un villaggio di montagna, la gente aveva paura di parlare con loro. Per molto tempo non le hanno permesso di studiare, anche se è una ragazza dotata. E' ignobile perseguitare i figli a causa dei genitori. Dovevo odiarla anch'io a causa di suo padre? Ho avuto pietà di lei. Ne ho avuto pietà perché le avevano giustiziato il padre e ne ho avuto pietà perché suo padre aveva mandato a morte un amico-."


Rileggere un libro è un'operazione che dovrebbe essere fatta solo con quelli autorevolmente certificati come classici, altrimenti si rischia di trovarsi a fare i conti con un sé che potrebbe non esistere più, piuttosto che con un'opera che ci rimanda ad un rassicurante senso di continuità esistenziale.
Ho letto la prima volta "Il valzer degli addii" circa quindici anni fa. Allora l'ho trovato uno dei libri più belli di Kundera, dopo "L'insostenibile leggerezza dell'essere"; mi pareva gioviale, al limite dell'allegro, sicuramente toccato da una vena di straordinario che tanto stride con il realismo cupo e malinconico di altri libri dello scrittore ceco.
Oggi mi domando seriamente: "ma chi ero per aver avuto una tale impressione?" 
Ero una ragazza, con poca esperienza della vita e dunque intimamente convinta che essa fosse una cosa indicibilmente seria.
Ero giovane e quindi, per definizione, innamorata di una visione romantica dell'essere umano, naturalmente e giustamente, pensavo, destinato a vivere tragicamente ogni aspetto della propria esistenza.
Non ero, ne pensavo sarei mai diventata, una madre.
Tutto ciò che ero ed adesso non sono più, basta, oggi, a spiegare perché la rilettura di questo libro mi abbia lasciato un senso di momentanea delusione: il tempo passa, ci cambia e io non amo i cambiamenti.
Ma Kundera esige uno sforzo ulteriore e l'abbandono di una prospettiva troppo personalistica perché egli è il cantore del dramma di un intero popolo che, dal 1939 fino al 1989, non ha avuto possibilità di autodeterminarsi. Da qui il senso del tragico che investe tutta l'opera di Kundera e la galleria di personaggi drammatici che popolano i suoi romanzi.
"Il valzer degli addii" non fa eccezione: questo romanzo, ambientato in una cittadina termale boema dove le vite di svariati protagonisti si intrecciano rimanendone indelebilmente segnate, è anzi un esempio lampante di come l'individualità sia spesso travolta senza riguardo alcuno dalla storia e dai suoi eventi, come se le vicende che hanno segnato la storia di questa nazione conservino una carica distruttiva residua che si abbatte sulla vita di tutti anche di quelli che non le hanno vissute personalmente.
E così troviamo Ruzena la giovane infermiera che, rimasta incinta, decide la paternità del suo bimbo sulla base di un calcolo che le permetta di cambiare finalmente vita, di fuggire da un luogo in cui non vuole vivere.
O Klima famoso trombettista dedito al tradimento seriale, unico mezzo per riscoprire, ogni volta, l'amore che prova per sua moglie.
E che dire di Skreta, ginecologo che cura giovani donne apparentemente infertili fecondandole, a loro insaputa, col suo seme nella convinzione che la procreazione è atto da riservare a pochi eletti? 
O ancora di Jakub, prossimo ad un agognato espatrio dopo aver sopportato il peso di rivoluzioni e controrivoluzioni (con il loro carico di morti e tradimenti), con la sola forza datagli da una compressa di veleno che per anni porterà con sé per poi separarsene in maniera sciocca e fin troppo leggera?
E Olga, figlia di un rivoluzionario condannato a morte dopo "la primavera", che si accanirà nel tentativo di sedurre Jakub, suo padre putativo, non riuscendo a limitarsi a nutrire per lui sentimenti di semplice  riconoscenza.
Si potrebbe pensare che Kundera esageri nel delineare personaggi così originali e contorti, che questo sia un suo peculiare vezzo tuttavia basta ripensare all'"Utz" di Chatwin (il collezionista ceco di porcellane che rinuncerà per esse alla possibilità di espatriare e sottrarsi alle restrizioni del regime comunista salvo poi distruggerle per non lasciarle nelle mani di rozzi burocrati) per capire che quanto più i regimi totalitari cercano di soffocare l'individualità tanto più questa tende a crescere ripiegandosi su se stessa, aggrovigliandosi in strane e intricate configurazioni così difficili da comprendere per chi non abbia fatto la stessa esperienza. 
Prova ne sia, per tornare a "Il valzer degli addii", che l'unico personaggio avulso da questo senso del tragico è Bertlef un villeggiante americano capace di trovare la bellezza nell'animo di chi incontra e di rendergliela manifesta; unico anche a poter contare su una dimensione spirituale e religiosa del suo sé, in grado di collocare la sua vita su un piano più alto rispetto agli altri. Ma Bertlef è appunto un villeggiante americano e come è arrivato in Cecoslovacchia, ignaro dei drammi che vi si sono consumati, così se ne andrà. Gli altri rimarranno sempre indissolubilmente legati alle storie della loro nazione.
Quale sia stata la storia della Cecoslovacchia nel secolo scorso si potrà comprenderlo studiandola sui libri ma se si vuole capire cosa ha significato viverla allora, senza dubbio, bisognerà leggere Kundera. 
Alla fine di questa recensione, mi accorgo di aver sbagliato all'inizio: non è vero che questo libro non è un classico, ero solo io ad esser troppo giovane la prima volta che l'ho letto.



mercoledì 22 maggio 2013

Se io potessi...


esprimere un desiderio per Matteo
con la certezza che venisse esaudito
desidererei, senz'altro,
che non gli mancassero mai scarpe
come invece spesso 
è accaduto a me












giovedì 2 maggio 2013

Quando la salute non c'è: curarsi in tempo di crisi

E' iniziato tutto a fine novembre: ci hanno mandato di corsa a Napoli (per noi che veniamo dal Lazio si fa prestissimo in Campania, misteri del Sistema Sanitario Nazionale!) a fare una tac pet, c'era un sospetto di recidiva locale di malattia. Quel giorno ho rischiato pure di essere investita. Dopo quattro giorni mi collego in rete e leggo il referto: quattro aree di alto assorbimento del mezzo di contrasto, tradotto quattro metastasi. Era il 14 dicembre. Contatto la dottoressa via mail (il telefono è mezzo di comunicazione troppo semplice per essere usato in quell'ospedale) la quale, dopo due giorni, mi risponde che bisogna avere fisicamente in mano l'esame: loro non possono visionare via web (ma che le fanno a fare le innovazioni se poi non le usano?); dunque parte mio fratello e torna a Napoli a ritirare l'esame. Quando me lo porta a casa trovo sull'involucro esterno una medaglietta di un santuario a noi vicino cui lui è molto devoto. Ricontatto l'oncologa che mi prenota una visita per il 20 dicembre. Troviamo il primario del day hospital il quale, azzerando anni e anni di studio di terminologia medica che mi permettesse di parlare con i medici alla presenza di mio padre senza fargli capire troppo bene il senso dei nostri discorsi (certe cose è meglio spiegarle con calma), se ne esce: "siamo di fronte a quattro nuovi tumori", alla faccia della chiarezza.
Una coltellata; tuttavia provo a rettificare "ma dottore non potrebbero essere falsi positivi, la tac pet ne da, alle volte" e lui rincara "no, no, non ci sono dubbi, questo sono quattro nuovi tumori, dobbiamo solo capire di che tipo istologico per decidere quale chemioterapia fare, per questo abbiamo necessità di effettuare delle biopsie, le prenoto una visita radiologica per il 2 gennaio" e guardandomi con commiserazione "bisogna avere un po' di pazienza, nel frattempo state calmi e buone feste!". Ah, ah, ah!!!
Passano natale e capodanno, vi lascio immaginare in che stato d'animo. Arriva il giorno della visita, il radiologo analizza attentamente le immagini, per un quarto d'ora nessuno parla, si sente solo il rumore dello scroll del muose. Alla fine il responso che non t'aspetti: "per quello che vedo, io non me la sento di partire subito con delle biopsie, quello che farei è invece ripetere gli esami a distanza di qualche tempo e valutare se ci sono delle variazioni, solo allora decideremo cosa fare".
Non sto qui a raccontarvela tutta: dirò solo che dopo due mesi di esami e controesami nessuna delle aree evidenziate dalla tac pet si è rivelata meritevole di esame bioptico, tutto ridimensionato.
Ecco cari lettori vi auguro di  non avere mai a che fare con una malattia tumorale ma, nel disgraziato caso,  ricordate sempre una una cosa: mai perdere le speranze almeno fino a prova contraria. Una volta un oncologo mi disse " il tumore non legge libri" a significare che è difficile prevedere il decorso di una malattia tumorale difatti, stando alle statistiche, papà avrebbe dovuto manifestare una recidiva già un anno fa. Attualmente non ve ne sono evidenze.
"Bello, bellissimo" direte voi.
"E allora perché siamo nel corridoio di un pronto soccorso alle quattro di notte aspettando un improbabile ricovero?" Pensavo una settimana fa dopo l'ennesima crisi di anuria e dolori fortissimi. Il fatto è che lo stent ureterale sta dando un sacco di problemi, a nulla sono servite le nostre "proteste": riuniti in seduta plenaria, oncologo, urologo e radiologo interventista hanno sentenziato che "lo stent è ben posizionato e funziona benissimo, per il dolore ci sono le opportune terapie farmacologiche". Invece: paracetamolo-codeina, fentanil, morfina. Non funziona nulla. Ci siamo decisi a rivolgerci ad altri medici. Appunto eravamo in pronto soccorso: l'ospedale dove papà ha subito l'intervento non ne ha (ti piace lavorare facile?).
Una notte di passione, tre giorni nel limbo del reparto di osservazione lunga (una specie di purgatorio, una camerata degna dei nosocomi dei primi del novecento, dieci, quindici pazienti assiepati, neanche un comodino per posare gli occhiali da vista) e poi a casa perché o muori o sopravvivi. Papà è sopravvissuto guadagnandosi una visita nell'ambulatorio di urologia dello stesso ospedale. Normalmente avremmo dovuto aspettare sei mesi per ottenerla, nonostante avessimo pagato la bellezza di duecento euro per una visita in regime privato con un importante urologo che lavora nello stesso ospedale (bello il tempo in cui bastavano i soldi a rendersi riconoscibili agli occhi di un medico). Ci aspettiamo una parola di speranza da questa visita.
"Non è possibile continuare così per me e nemmeno per voi, troppo strazio...a proposito torna a casa, tra poco Matteo si sveglia, chi ci pensa a lui?" Sono frasi come questa che mi riportano alla realtà dopo che la visione di decine e decine di malati, per lo più anziani, mi hanno fatto pensare, quella notte,   che si, alla fine, ci sarebbe da chiedersi se davvero sia giusto che la salute sia un diritto universale. Non sarebbe forse meglio curare solo alcuni? Quelli che hanno un ruolo importante nella società, quelli che se lo meritano. Presa in questo delirio (facilitato da trenta ore di veglia ininterrotta) sento papà dire "voi non potete sopportare tutto questo" e, all'improvviso, realizzo che ogni persona in quanto padre, madre, figlio, fratello, sorella, moglie o marito di qualcuno "merita di essere curato", punto.
E mi vengono in mente le parole di Gino Strada: se gli ospedali diventano aziende non hanno più interesse a curare le persone;




mio padre ha una lista di esami fatti che ho dovuto fare un promemoria per raccapezzarmici, ricoveri su ricoveri, una situazione oncologica di malattia ferma eppure sta talmente male da farmi paventare gesti estremi. Abbiamo la sensazione di star annegando in un bicchiere d'acqua, speriamo che qualcuno ci lanci un salvagente.
Nel frattempo in onore a quanti, medici e infermieri, continuano a lavorare con passione, professionalità e umanità (dote che in questo campo fa miracoli), in onore della dottoressa che quella notte, invece di riposare, si è seduta accanto a me e mi ha spiegato cosa ne pensasse della situazione clinica di papà, rispondendo alle mie domande e dandomi il suo punto di vista (non era affatto tenuta a farlo) segnalo questo approfondito articolo di Stefania Gabriele apparso sul blog goofynomics di Alberto Bagnai. Leggetelo, anche se lungo, servirà ad immunizzarvi a qualsiasi tentativo di convincervi che ci sia un limite al diritto alle cure mediche perché tanto, a breve, proveranno ad attaccare anche la sanità pubblica, facendoci credere che lo Stato italiano sta andando a rotoli perché ci curiamo troppo!
Intanto a metà maggio ci aspetta un'altra tac-pet: starò attenta a non farmi investire.

sabato 27 aprile 2013

Il momento è storico...

(di storia con la "s" minuscola ma non meno significativa:)

Matteo ha fatto la cacca nel water!!!

Il mio cuore trabocca di gioia!!!
Proprio ieri al controllo di crescita parlavo con la pediatra della mia decisione di resa incondizionata: "che debbo fare, se non gli  metto il pannolino è capace di stare anche cinque giorni senza farla, e pensare che con la pipì è perfettamente autonomo. Basta aspetterò che si decida da solo."
E siccome i bambini ascoltano e ragionano ieri sera mi ha chiesto l'adattatore, è rimasto seduto per dieci minuti, stamattina anche e finalmente oggi l'evento tanto aspettato: all'improvviso mi ha chiamato dal bagno dicendomi "mamma ho fatto la cacca".
Il mio cuore trabocca di gioia per questo bimbetto che non si fa convincere facilmente a fare ciò che non vuole ma che, quando si sente pronto, riesce a far tutto anche ciò che fino ad un momento prima riteneva al di sopra delle proprie possibilità.
Festeggiamo degnamente:


i traguardi che a noi adulti sembrano poca cosa ma che per un bambino son cose grandi!


lunedì 25 marzo 2013

Dove sei?


Dovrei riuscire a concentrarmi sulla mia mediocrità.
Così non avrei modo di sentire quanto mi manchi e quanto mi manca la tua straordinarietà.
Dovrei concentrarmi sulla tua mediocrità e magari riuscirei a mantenere in secondo piano la tua unicità.
Sono stata brava, ci sono riuscita per tanto tempo, adesso non più.
Dove sei?
E lo so, ho il tuo numero di telefono, ho il tuo indirizzo, ma così non vale.
Ho bisogno che sia il destino a farci rincontrare magari anche in sogno.
Ho bisogno di riscoprire che la vita è qualcosa di più di questo ininterrotto sfiorare la superficie di cose irrilevanti e vuote di significato.
Dove sei?


            



venerdì 15 marzo 2013

Disegni



Questo l'ha fatto Matteo!!!
Difatti lo diceva che a lui piace solo di disegnare; ha elaborato questo "mostro", che continua a declinare in varie versioni cambiando ogni volta i particolari, completamente da solo ed è estremamente soddisfatto quando io guardandole emetto un urlo di paura. Questo disegno qui, in particolare, mi ha divertito tanto che gli ho chiesto di regalarmelo, pretendendo anche la dedica, scritta mano nella mano.
A Matteo piace disegnare in questo periodo; sarà che disegnare è per lui anche un modo per creare la realtà (ciò che disegna diventa concreto) e per rappresentarsela (e dunque capirla), sarà che apprezzo le sue produzioni o semplicemente sarà che gli piace molto,  fatto sta che la cosa è per lui molto seria. Dunque lo è anche per me.
Allora ho iniziato ad osservare:


"Della serie: Piccoli criminali crescono. Complimenti ai genitori!", direte voi.
Ma no, non siate superficiali: questo l'ha fatto qualche giorno dopo la la grande protesta e la conseguente grande sfuriata materna, mentre era all'asilo (un sentito grazie alla maestra che decriptato il messaggio), è normale che uno ci legga:

se avessi una pistola io, Matteo il terribile, aiutato da un supereroe amico mio, farei tanta paura a quei cattivoni di mamma e papà, che stanno là, oltre la casa, insieme, mentre io sto qua, da solo (meno male che c'è il supereroe amico mio); ma io c'ho una pistola che passa anche attraverso le case, una super pistola, e infatti papà e mamma, brutti e cattivi, hanno una paurissima di me. Oltretutto c'ho anche l'arma segreta: il disco volante fatto a ragno [sfuggito anche all'analisi della mestra, appunto trattasi di arma segreta] che punta contro di loro.
Vò messo paura, eh?
Sono più forte di voi.
Mi sento soddisfatto
quasi, quasi...
disegno un sole,
un pò mostro, però.

Niente di preoccupante, c'è anzi da gioire che questo bimbetto inizi domandarsi, "chi sono, dove sono e, soprattutto, cosa ci faccio qui?". Tanto, prima o poi, tocca a tutti e si inizia sempre da lì. L'importante è passare in fretta ad altro.
Dunque inizierò a preoccuparmi solo nel caso il soggetto artistico dovesse ripetutamente catturare  l'attenzione di Matteo. Certo si è aperto per lui il grande periodo "triangolare", che verrà vissuto in tutte le sue sfumature cromatiche e proiezioni geometriche, con meticolosità vangoghiana; c'è d'aspettarsi tanta altra inquietudine, dovrò preparami ad immagini che rimarranno impresse indelebilmente nella mia testa ma ce la possiamo fare.
E la morale della storia è:

Che carta, colori ed estimatori non manchino mai ai vostri bimbi.




mercoledì 27 febbraio 2013

Vibrante protesta

"Perché all'asilo si fanno sempre i lavoretti...lavoretti, lavoretti, lavoretti. Io mi sono stufato di tutti questi lavoretti. Io voglio solo disegnare, a me mi piace solo di disegnare.
E poi devo sempre rimettere le cose a posto: se io dipingio, allora poi devo rimettere i colori a posto. [e mica stai a casa]
E quando chiedo quando arriva papà, la maestra mi sgrida sempre.
E poi sto sempre solo, nessuno gioca con me e io sono stufo di stare tutto il tempo solo.
E quelle gocce che mi metti al naso sono disgustose e io non le voglio più."

Ecco qui la vibrante protesta espressa da Matteo l'altra sera, ho cercato di riportare fedelmente le sue parole ma ero troppo presa dalla veemenza dell'esternazione e dal tentativo di controbattere (che non riporto perché irrilevante) che non ho memorizzato fedelmente.
Di che parlare prima: della soddisfazione provata nel constatare che il gigantino sa esprimere i suoi sentimenti, della preoccupazione per questo rifiuto dell'asilo o della mia violenta reazione di rabbia quando ieri mattina non c'è proprio stato verso di farlo uscire di casa?
Ecco cominciamo da qui. Io sono per la non violenza, soprattutto verso i bambini: rispetto i loro tempi, i loro pensieri, la loro sensibilità. Al limite posso arrivare a dire "se qualcuno ti picchia, ALLORA picchialo anche tu, Matteo" e anche questo mi pesa. Ci sono tuttavia momenti in cui non posso fare a meno di usare tutta l'autorità connessa al mio ruolo genitoriale in maniera aggressiva e violenta. Chiaro che non sto parlando di violenza fisica ma della più sottile e pericolosa violenza psicologica. Per cui ieri mattina dopo aver sbraitato furiosamente e sfogato la mia rabbia sbattendo violentemente a terra quello che mi capitava in mano, ho imposto a Matteo di non muoversi dalla stanza da letto. Dopo circa un'ora, durante la quale mi ha più volte chiamato senza ottenere risposta, l'ho cambiato e gli ho fatto fare colazione, quindi gli ho comunicato che per punizione per tutta la giornata non avrebbe potuto vedere la tv né giocare con il pc. Ho tenuto un'espressione  indisponente per tutta la mattinata. Ebbene, dopo il mio comportamento in sé, la cosa più triste è stato constatare quanto bene funzionino questi atteggiamenti: addirittura ad un certo punto è arrivato a dirmi: "e va bene allora ci vado all'asilo". Violenza e autoritarismo sono tra gli atteggiamenti apparentemente più efficaci che un genitore possa adottare per fronteggiare l'individualismo di un bambino piccolo, da qui la loro pericolosità. Non ho mai pensato di essere una madre infallibile ma ieri ho toccato il fondo.
C'è poco da aggiungere tranne che mi sono davvero arrabbiata: "Perché non vuole andare all'asilo, non avevamo superato questo momento?" continuavo a pensare mentre rimettevo mano ai programmi per la giornata che mi ero fatta la sera prima. A pensarci adesso, tra neve e influenza, la continuità didattica ultimamente si è un po' interrotta e questo di per se può spiegare l'atteggiamento di Matteo. Comunque domani andremo a parlare con la maestra soprattutto per verificare se davvero si sta isolando dai suoi compagni, che è la cosa che mi preoccupa di più. Spero di non trovare il solito atteggiamento semplicistico della serie "ma no, non è niente, va tutto bene, non si preoccupi", Matteo è un furbetto ma non un mentitore. E comunque con i bambini la realtà e la sua oggettività hanno un importanza relativa rispetto alla loro personale percezione delle situazioni.
E veniamo all'unico aspetto positivo della faccenda: sono rimasta letteralmente rapita dall'intensità e dalla chiarezza con cui il gigantino ha saputo esprimere il suo disagio. Era un'onda di piena, tanto preso da rimproverarmi anche per le gocce al naso, già che c'era. Una perfetta corrispondenza tra lo stato emotivo provato, che ho dedotto facilmente dal suo linguaggio corporeo, le parole usate per esprimerlo e la sua capacità di mantenere il turno di conversazione. Ecco: una delle cose che ci terrei ad insegnare a Matteo è la capacità di esprimere il suo disagio, non necessariamente a me quanto soprattutto a se stesso perché penso che questa abilità sia necessario fondamento dell'equilibrio psichico. Se infatti è vero che i bambini sono maestri e infaticabili cultori dell'arte del capriccio è altrettanto estrema la loro capacità di adattarsi, per amore dei genitori, a qualsiasi sforzo gli venga chiesto ma questa abilità, se abusata o usata impropriamente, è l'anticamera dell'infelicità. 
A dispetto dell'ostentata sicumera si accettano consigli.
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